Immaginiamoci per un secondo di tornare indietro di 45 anni, quando la Romanese, guidata da Antonio Danelli e Albino Trepla, giocava sui campi di Serie D. Ora, cambiamo il passato. La Romanese riesce a battere nello scontro diretto la Pergolettese e si issa al primo posto del suo girone. La fortuna e gli arbitri, nel nostro nuovo passato, le arridono invece che affossarla, e, con grande gioia del Paese, la Romanese sale in Serie C.
Siamo tra i professionisti. Romano è sulla mappa, non solo per importanza economica e sociale, ma adesso anche per importanza sportiva.
Giocare in Serie C è dura, fatichiamo un po’, ma le risorse (economiche e umane) ci sono e le competenze anche. Ci stiamo per molti anni. Trasferte in tutta Italia, sfide contro squadre prestigiose, qualche batosta ma anche tante grandi soddisfazioni. Romano è “uscita dalla piazza”.
Ma non finisce qui: la nostra “finta” Romanese ha la possibilità di giocare la Coppa Italia; non quella di Serie D, LA Coppa Italia. Usciamo quasi sempre al secondo, massimo terzo turno, ma nonostante questo l’opportunità è straordinaria. Ogni tanto ci troviamo la sera, andiamo al Comunale e ci capita di vedere Romanese – Inter, oppure una sfida contro Juve, Milan, Atalanta e tutte le altre. Siamo una piccola realtà, ma per un secondo, per un fulgido glorioso attimo, siamo tra i grandi, mangiamo la loro stesso tavolo e, se una volta ci va bene, magari riusciamo anche a batterli. Anche per i Romanesi che del calcio non si interessano questo non può che essere un bel pensiero, un angolino dove la comunità di un piccolo Paese può rifugiarsi, pensando che, una o due volte l’anno, quelli delle grandi città sanno chi siamo.
Oggi questo scenario da sogno non sarebbe possibile perché, senza chiederlo, senza anticiparlo, senza possibilità di ritorno, la Lega Serie A e la FIGC hanno deciso che realtà come la nostra Romanese non sono abbastanza interessanti, riducendo la Coppa Italia alle 40 squadre di A e B e nascondendosi dietro a frasi fatte che non piacciono a nessun tifoso. “Non abbastanza appetibili” dicono, o “non competitive”, “non è personale, vogliamo solo salvaguardare lo spettacolo”. Ma quanta ipocrisia c’è in tutto questo?
Neanche un mese fa la stessa FIGC aveva definito la Superlega una vergogna, un becero tentativo dei ricchi di rubare il calcio ai tifosi, affermando in un nietzschiano nichilismo, “il calcio è morto”, per poi fare la stessa identica cosa, senza pudore e senza che quasi nessuno si lamentasse. Tutte le squadre che hanno votato per l’esclusione di Inter, Juve e Milan dalla Serie A hanno distolto lo sguardo, perché questa volta quelle che hanno tradito il calcio sono state loro, e non hanno neanche avuto il coraggio di guardare negli occhi le loro vittime, le piccole realtà di provincia, mentre premevano il grilletto, segnando il loro destino.
Il calcio è dei tifosi, il calcio è meritocratico SEMPRE, non solo quando le istituzioni lo vogliono, non solo quando i soldi contano. Se il Pordenone elimina l’Inter, o se l’Alessandria arriva in semifinale, è perché lo meritano.
Rimaniamo ammaliati dall’FA Cup, vedere squadre di ottava divisione lottare contro colossi del calcio mondiale ci riempie di passione e gioia. Ma finita la partita ci riveliamo per quel che in fondo abbiamo mostrato di essere: ipocriti. E mentre difendiamo la meritocrazia all’estero e in Europa, il nostro calcio scivola nel più totale sciovinismo ed elitarismo.
La nostra Romanese conta e DEVE contare come una squadra di Superlega, sempre.
Martino Probo